Specie negli sport dove girano rilevanti interessi affiora il dubbio  che il doping ci metta lo zampino. Sospetti sembrano talora certi crolli di atleti il giorno dopo una loro prestazione maiuscola: nel tennis, ad esempio, un top ten che perde di brutto al primo turno da uno sconosciuto di bassa classifica. “To dope” in inglese significa drogare e da qui il termine “doping”, riferito all’uso illecito nello sport agonistico di sostanze varie, costituite principalmente da EPO (eritropoietina), anabolizzanti e anfetaminici. L’attenzione al doping (sottostimato?) è cresciuta anni fa grazie a qualche atleta pizzicato in più di uno sport dai controlli (sempre all’altezza?). Esiste inoltre un tipo peculiare di doping, che non si avvale di sostanze, non è svelabile dai controlli convenzionali, ed emerge invece grazie alle recenti acquisizioni riguardanti il placebo. Pochi sanno che il placebo può in realtà essere non solo un composto farmacologicamente inerte, ma anche un indottrinamento verbale, un’(auto)ipnosi, un rituale pre-gara. Oggi infatti, grazie anche alla PET e alla RM, è ben documentato che il placebo non è solo suggestione, ma è in grado di sollecitare il rilascio di neuromediatori con conseguenze che si traducono in maggiore resistenza al dolore e alla fatica, in effetti “adrenalinici” e in maggiori autostima e ottimismo. Era pertanto logico porsi il quesito se anche le attività agonistiche non ne potessero essere influenzate positivamente. Una meta-analisi di 14 studi, attenta sia a parametri di performance (potenza muscolare, velocità, frequenza cardiaca) che ad aspetti psicologici (percezione dello sforzo, tolleranza della fatica e del dolore, stato d’animo pre-competizione) dimostra “che l’effetto placebo può entrare in gioco pure nelle gare sportive”. Complessivamente, si ritiene che il miglioramento delle prestazioni fisiche degli atleti in qualche modo così placebo-trattati (calciatori, tennisti, cestisti, rugbisti, pallanuotisti, pesisti) oscilli in media tra il 4 e il 20% e che nella maggioranza dei casi esso sia compreso tra 1 e 5%. Tali percentuali di miglioramento sembrano numericamente piccole, ma in realtà specie in alcune prestazioni individuali possono incidere molto. Nel sollevamento pesi, ad esempio, già un incremento dell’1% potrebbe risultare decisivo in una competizione, figuriamoci un aumento del 10%! Condizionamento e aspettative sono componenti essenziali dell’effetto placebo e pertanto, se ben sfruttati da un allenatore per incentivare autostima, concentrazione, tolleranza al dolore e resistenza allo sforzo, possono risultare vantaggiosi durante una gara. Un allenatore, insomma, può fungere inconsciamente anche da placebo, quando cioè riesce a “dopare” (conscio o no) i suoi giocatori grazie alla propria capacita di infondere armonia e combattività nel gruppo e nei singoli. Antidoping disarmato?

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