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Prof. Giorgio Dobrilla

Primario Gastroenterologo Emerito dell’Ospedale Regionale di Bolzano, Professore a contratto all’Università di Parma.

La recente orrenda vicenda di Giulia Cecchettin ammazzata brutalmente dal suo “innamorato” poco prima di laurearsi in Ingegneria dell’informazione, desta uno sgomento così indicibile e diffuso che non si sa proprio come commentarlo specie ricordando gli altri 105 femminicidi registrati in Italia nel 2023. La reazione più immediata per l’assassinio di troppe donne è un dolore profondo, un malessere interiore per i quali non dovrebbe bastare l’indignazione della sola giornata dell’8 marzo. Lo sgomento emotivo, tranne che per i famigliari e le persone vicine alla vittima, dura infatti brevissimo tempo. L’orrore immediato è spesso soppiantato rapidamente dall’interesse più o meno morboso per dettagli sostanzialmente poco significativi se non per il magistrato e la legge: come è stata uccisa la vittima? Quando e perché è successo? C’è anche stata, e quale, violenza sessuale? Questo orrore è però fugace e lo constatiamo anche per eventi più tragici ancora riguardanti non una singola persona, ma migliaia di vittime di guerra (civili e militari) per le quali non è colpevole un singolo individuo ma la follia di troppi. Ricordiamo al riguardo che la tragedia incommentabile di Giulia abbia sottratto a momenti l’interesse mediatico persino alla guerra scatenata dall’ invasione russa dell’Ucraina, all’attacco terroristico atroce di Hamas a Gaza e all’abnorme reazione di Israele. Questo accade per ogni tipo di sciagura individuale o collettiva perché la memoria della gente, se non ravvivata da un’educazione civile e da un’informazione continua e consapevole degli eventi, è variamente distratta e quasi abituata a registrare incresciose vicende quotidiana in ogni parte del mondo. Tornando al femminicidio una considerazione da ribadire è che per ridurre la violenza in aumento sulle donne c’è tendenza delle Autorità e dei politici a ipotizzare soltanto soluzioni “tattiche”, ossia pene più severe per i colpevoli che raramente vengono poi attuate, quali la diffida di avvicinamento alla potenziale vittima, o il “braccialetto”. Si glissa sempre però su una soluzione “strategica” che prevede solo una precoce educazione civica, sentimentale e sessuale dei giovani in particolare e della popolazione in generale, genitori inclusi. In tanti anni di professione, anche se contattato per altri motivi (problemi gastroenterologici funzionali o organici) ho infatti personalmente constatato l’assoluta mancanza di confidenza tra figli, e soprattutto figlie, e i propri genitori. Eppure il sesso nei giovani non è un capriccio indecente, ma una fisiologica esigenza che affiora e che abbisogna solo di essere discussa e regolamentata. Solo la confidenza con i genitori durante la crescita e poi l’informazione scolastica a tutti i livelli attuata con molta naturalezza e con linguaggio adatto (di fatto assai infrequente) può consentire di moderare l’aggressività dei maschi e rimuoverne il senso di colpa (peccato?) del giovane se avverte certi stimoli. Se manca questa “confidenza” con genitori ed insegnanti in genere, l’adolescente maschio l’educazione sessuale se la fa da solo, ricorrendo al passa parola o magari alla pornografia disponibile pure su cellulari e videotape. In tal caso lo scenario è artificiale e completamente privo di una componente fisiologica e benefica della sessualità come l’amore. Quando l’amore è vero, esclude di per sè l’aggressività, la prevaricazione e il femminicidio, non di rado esaltati dal’uso eventuale di droghe. Educare, proteggere e non solo punire dovrebbe essere l’auspicio che non si limiti all’8 marzo di ogni anno.

ESOFAGO DI BARRETT: LESIONE PRE-CANCEROSA? 19 marzo 2024Dei pazienti mi chiedono di far chiarezza sul “Morbo di Barrett” (B), condizione sospettata di essere lesione pre-cancerosa. Sintetizzo allora, e aggiorno, quanto ho già scritto 10 anni fa. L’endoscopista sospetta questa malattia quando nella mucosa esofagea di colore “rosa pallido” (che nelle biopsie risulta tappezzata da cellule piatte), trova propaggini “risalite” di mucosa gastrica “color salmone” rivestite da cellule cilindriche (lesione chiamata dagli anatomo-patologi è “metaplasia colonnare”). Il B è definito “corto” se è meno di 3 cm o ”lungo” se li supera, ma la diagnosi richiederà sempre conferma bioptica. Un aggiornamento nel 2014 segnalava un aumento di 7 volte del B già nel decennio precedente, in parte forse dovuto al maggior ricorso alla gastroscopia, ma ne sdrammatizzava nel contempo il potenziale precanceroso. Un tempo si sospettava infatti che il B fosse tout court uno dei fattori di rischio di cancro dell’esofago (Cr Es), ma oggi la maggioranza degli esperti la pensa diversamente. Un’ evoluzione tumorale sembra di fatto esistere solo se il B è lungo e se le cellule delle propaggini ricordano in parte non quelle dello stomaco, ma quelle dell’intestino associate a cellule mucipare (“metaplasia intestinale”). Molto preziosa, comunque, l’esperienza dell’istopatologo. Fattori favorenti in varia misura l’evoluzione del B in cancro, oltre all’esofagite cronica, si riconfermano essere: età > di 50 anni., razza bianca, sesso maschile, obesità, eccesso di carne rossa, fumo e etilismo. Riducono invece il rischio: frutta/verdura, alta statura, infezione da Helicobacter pylori. Oggi il rischio di evoluzione neoplastica del B si ritiene più modesto che in passato e, per ridurlo ulteriormente, si è proposto uno screening ad hoc, ma non è provato che individuare precocemente il Barrett serva a ridurre i decessi per CrEs. Le società scientifiche raccomandano un controllo gastroscopico ogni 2-3 anni ma solo se i sintomi da reflusso gastro-esofageo (tipico il bruciore retrosternale ascendente) sono sub-continui e si associano ad almeno uno dei co-fattori di rischio già considerati. Purtroppo, il 40% dei pazienti con CrE non lamenta sintomi di esofagite da reflusso, ciò che riduce la possibilità di una diagnosi precoce sia di B che di CrEs. Nei pazienti con B accertato, sarebbe importante definire quali di loro si avvantaggerebbero del controllo periodico e quali no, ma questa distinzione risulta problematica. Quanto alla terapia del B, i cosiddetti “prazoli” riducono del 75% la progressiva evoluzione prima in “displasia”, una lesione che quando è severa è al confine con il tumore, e poi in cancro conclamato. Già nel B con associata displasia severa è indicata un’ablazione chirurgica o il ricorso a endo-tecniche sofisticate (mucosectomia, laserterapia, radiofrequenza) le quali richiedono in ogni caso mani esperte.

Mar 20

Dei pazienti mi chiedono di far chiarezza sul “Morbo di Barrett” (B), condizione sospettata di essere lesione pre-cancerosa. Sintetizzo allora, e aggiorno, quanto ho già scritto 10 anni fa. L’endoscopista sospetta questa malattia quando nella mucosa esofagea di colore “rosa pallido” (che nelle biopsie risulta tappezzata da cellule piatte), trova propaggini “risalite” di mucosa gastrica “color salmone” rivestite da cellule cilindriche (lesione chiamata dagli anatomo-patologi è “metaplasia colonnare”). Il B è definito “corto” se è meno di 3 cm o ”lungo” se li supera, ma la diagnosi richiederà sempre conferma bioptica. Un aggiornamento nel 2014 segnalava un aumento di 7 volte del B già nel decennio precedente, in parte forse dovuto al maggior ricorso alla gastroscopia, ma ne sdrammatizzava nel contempo il potenziale precanceroso. Un tempo si sospettava infatti che il B fosse tout court uno dei fattori di rischio di cancro dell’esofago (Cr Es), ma oggi la maggioranza degli esperti la pensa diversamente. Un’ evoluzione tumorale sembra di fatto esistere solo se il B è lungo e se le cellule delle propaggini ricordano in parte non quelle dello stomaco, ma quelle dell’intestino associate a cellule mucipare (“metaplasia intestinale”). Molto preziosa, comunque, l’esperienza dell’istopatologo. Fattori favorenti in varia misura l’evoluzione del B in cancro, oltre all’esofagite cronica, si riconfermano essere: età > di 50 anni., razza bianca, sesso maschile, obesità, eccesso di carne rossa, fumo e etilismo. Riducono invece il rischio: frutta/verdura, alta statura, infezione da Helicobacter pylori. Oggi il rischio di evoluzione neoplastica del B si ritiene più modesto che in passato e, per ridurlo ulteriormente, si è proposto uno screening ad hoc, ma non è provato che individuare precocemente il Barrett serva a ridurre i decessi per CrEs. Le società scientifiche raccomandano un controllo gastroscopico ogni 2-3 anni ma solo se i sintomi da reflusso gastro-esofageo (tipico il bruciore retrosternale ascendente) sono sub-continui e si associano ad almeno uno dei co-fattori di rischio già considerati. Purtroppo, il 40% dei pazienti con CrE non lamenta sintomi di esofagite da reflusso, ciò che riduce la possibilità di una diagnosi precoce sia di B che di CrEs. Nei pazienti con B accertato, sarebbe importante definire quali di loro si avvantaggerebbero del controllo periodico e quali no, ma questa distinzione risulta problematica. Quanto alla terapia del B, i cosiddetti “prazoli” riducono del 75% la progressiva evoluzione prima in “displasia”, una lesione che quando è severa è al confine con il tumore, e poi in cancro conclamato. Già nel B con associata displasia severa è indicata un’ablazione chirurgica o il ricorso a endo-tecniche sofisticate (mucosectomia, laserterapia, radiofrequenza) le quali richiedono in ogni caso mani esperte.

Autocritica necessaria: nel trattare argomenti che riguardano medicina, cure e salute anche noi medici (e scagli la prima pietra chi è senza peccato!), usiamo talora termini inglesi poco chiari, che potrebbero essere sostituiti da parole italiane. Abbiamo inoltre già rimarcat altre volte che ciò che i dottori scrivono di medicina, specie su riviste non professionali, deve invece essere chiaro non a loro ma a chi legge. Gli esempi non mancano e ne indichiamo alcuni: “Long-term” e “Short-term” stanno per a lungo o rispettivamente a breve termine. “Trial” sta per lavoro scientifico e “Open trial “(letteralmente studio aperto) per cura non confrontata con altri trattamenti e basata cioè solo sul criterio fallace del ”prima e dopo”. A “Random” significa a caso e “Post-marketing surveillance” vuol dire monitoraggio dopo la commercializzazione. “Side-effects” equivale a effetti collaterali e “Outcome” sta per esito. “Cross-over” indica terapia incrociata: cura A che nel corso dello studio passa a cura B e viceversa). “Safety” (che non è security!) sta per sicurezza. “In- e Out-patients” dignifica rispettivamente pazienti ricoverati o ambulatoriali. A volte il termine inglese viene usato perché per tradurne il significato si spenderebbero troppe parole. Ad esempio, “Double-blind”, letteralmente a doppio cieco, è espressione oscura e bisognerebbe precisare che la cecità non c’entra niente e indica solo che la cura è confrontata con placebo (o altro agente) senza che medico e malato entrambi consenzienti a “non” esserne informati) conoscano quale sia il preparato assunto. All’università, solo la vanità personale spinge talora il docente a ostentare la conoscenza di più lingue. Quando ancora ero studente a PD un cattedratico chirurgo parlava correttamente quattro lingue e anche a lezione usava di continuo termini inglesi, francesi e tedeschi non necessari. Per questo noi studenti, invece che entusiasmarci, lo si considerava un pallone gonfiato. L’”inglesismo” non motivato è del resto diffuso anche in ambito non medico e specie tra politici, conduttori TV e giornalisti: “Endorsement” per appoggio, “Lock down” al posto di chiusura totale, “No deal” per nessun accordo. I termini inglesi trovano forse una qualche giustificazione nell’ambito di sport nati all’estero, chiamati con nomi ben comprensibili anche dagli italiani: “Corner” per calcio d’angolo, “Cross” per traversone, “Match ball” nel tennis per punto partiita, “Drop shot” per colpo smorzato, “Smash” per schiacciata. Difficile comunque evitare l’inglese per sport nuovissimi o meno noti (lacrosse, squash, curling et al) e, in tal caso, pure i puristi consentirebbero il romanesco “quando ce vo’, ce vo’” (che in inglese…suonerebbe “when it is needed is needed”). Giustificati anche gli acronimi inglesi, purchè esplicitati all’inizio dell‘articolo per renderli accessibili in seguito.

Il morbo di Alzheimer (ALZ) rappresenta il 50-80% dei casi di demenza nella popolazione occidentale. L’ALZ è contrassegnata dalla perdita di memoria del soggetto e dal declino progressivo di altre abilità che può essere così grave da interferire con le usuali attività quotidiane. Si associano nel tempo problemi di linguaggio, alterazioni della personalità, mancanza d’iniziativa, disorientamento, incapacità di ragionamento logico e di giudizio. Il paziente spesso è incapace di ritrovare gli oggetti che ha lasciato in un posto per lui insolito. Alla base dell’ALZ c’è l’accumulo tra le cellule nervose di placche di “beta-amiloide”, una proteina che le danneggia e poi ne riduce la sopravvivenza, con conseguente progressiva atrofia di varie aree cerebrali (in primis l’ippocampo). Altra lesione tipica dell’ALZ che pure concorre all’ atrofia sono degli ammassi neurofibrillari intra-neuronali costituiti principalmente da una proteina nota come “tau fosforilata”. L’ALZ colpisce prevalentemente soggetti in età avanzata (rara la forma ereditaria), ma non mancano singoli casi gravi e rapidamente progressivi pure in soggetti più giovani. A tutt’oggi non esiste ancora una cura per guarire l’ALZ e i farmaci disponibili mirano più che altro a rallentarne il peggioramento specie nelle fasi iniziali. La diagnosi di morbo di Alzheimer, che è complessa e anche per questo è solitamente tardiva, si avvale di numerose indagini cliniche e strumentali (tra cui test cognitivi e neuropsicologici, tecniche di immagine come TAC e Risonanza Magnetica Cerebrale). La malattia è solo parzialmente controllabile ma certo non guaribile. Tuttavia, negli ultimi mesi si è aperto un innovativo spiraglio terapeutico che mira specificamente a potenziare la memoria dei malati di ALZ grazie alla modifica genetica della proteina LIMK1 che è di norma presente nel nostro cervello. La terapia innovativa è stata pubblicata sulla rivista “Science Advances” da alcuni neuroscienziati dell’Università Cattolica di Roma e della Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli. In sintesi, il prof. C. Grassi e collaboratori hanno modificato la sequenza molecolare della LIMK1 inserendovi una specie di “interruttore molecolare” che serve ad attivare a comando la LIMK1 previa somministrazione di “rapamicina”. Questo immunosoppressore è prodotto da un batterio isolato nel terreno dell’isola di Pasqua (Rapa Nui e il suo nome indigeno). Approvata col nome di “Sirolimus” dalla Food and Drug Administration e dalla European Medicines Agency, la rapamicina non solo riduce la risposta immunitaria (utile per prevenire il rigetto di organi trapiantati), ma sembra pure rallentare del 50-60% l’invecchiamento di certi animali. È proprio di questo suo effetto anti-invecchiamento che potrebbe indirettamente giovarsi la memoria del malato di ALZ. Fascino della ricerca scientifica.

Tra i cancri meno noti, più rari e più maligni si colloca il colangiocarcinoma (CCA). In Europa si registrano meno di 10 mila casi all’anno e in Italia si stima che esso abbia colpito nel 2020 circa 5.400 persone. ll CCA nasce dall’epitelio che riveste i dotti biliari deputati a veicolare nell’intestino tenue la bile prodotta dalle cellule epatiche o quella già concentrata (ma non prodotta!) nella colecisti. Questo cancro può originare sia nei piccoli dotti biliari intraepatici (l’evento prognosticamente peggiore) sia in quelli extraepatici coledoco o nel cistico (che drena la colecisti). Purtroppo, il colangiocarcinoma può essere a lungo asintomatico e quindi difficile da diagnosticare precocemente. Il più delle volte la prima manifestazione è il colorito giallognolo della sclera (il “bianco dell’occhio”), che tende poi ad aumentare progressivamente e interessare anche la cute. Tra i campanelli di allarme c’è anche un cambiamento nel colore delle feci le quali diventano un po’ più chiare, mentre l’urina si fa più scura. Alla diagnosi si arriverà grazie ad esami come la TAC, che tuttavia non sempre è risolutiva, e soprattutto la colangio-RM (risonanza magnetica specifica) e la colangio-pancreatografia retrograda, esame invasivo (CPRE), attuato per via endoscopica. Il 70% dei pazienti riceve dunque una diagnosi quando ormai il tumore è in stadio avanzato e le opzioni terapeutiche sono molto limitate. La chirurgia spesso non è più praticabile e i trattamenti sistemici come la chemioterapia non garantiscono una risposta duratura. La prognosi è pertanto severa e la sopravvivenza globale a 5 anni dalla diagnosi risulta in media inferiore al 20%. Negli ultimi anni, però – spiega Giordano Beretta, Direttore sell’Oncologia Medica della ASL Pescara e Presidente della Fondazione Italiana di Oncologia Medica – “sono cresciute le nostre conoscenze sul tipo molecolare su questi tumori”. E aggiunge: “Oggi sappiamo quali sono le mutazioni geniche che ne guidano la crescita. Circa la metà dei colangiocarcinomi intraepatici (quelli peggiori) ha almeno una mutazione che può essere corretta con specifici agenti a bersaglio molecolare”. Per questo motivo, da un paio d’anni pure l’Agenzia Italiana del Farmaco ha approvato il “pemigatinib”, farmaco che sembra funzionare nei pazienti adulti affetti da CCA, sia avanzato localmente che metastatico, anche se risultati refrattari a una precedente chemioterapia convenzionale. Il pemigatinib costituirebbe di fatto una terapia mirata, ben tollerata e capace almeno di rallentare l’evoluzione di quei colangiocarcinomi contrassegnati da una mutazione genica specifica (di cui tralasciamo i dettagli in quanto troppo ostica per i lettori non addetti). La terapia con tale farmaco va comunque attuata solo da un oncologo esperto nel trattamento di pazienti con CCA nei quali si sia prima verificata la mutazione genica.

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