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Prof. Giorgio Dobrilla

Primario Gastroenterologo Emerito dell’Ospedale Regionale di Bolzano, Professore a contratto all’Università di Parma.

Impropriamente collocata talora tra le terapie alternative, l’ipnositerapia  (IT) fa invece parte a buon diritto della medicina scientifica nonostante le sue origini. La nascita dell’ipnosi è attribuita all’austriaco F. A. Messmer, fondatore della teoria del “magnetismo animale” (?), secondo la quale ogni organismo vivente emanerebbe una energia magnetica (mai registrata) sfruttabile a fini terapeutici. Il mesmerismo si colloca pertanto oggi tra le pratiche esoteriche prive di alcun credito. Di fatto, l’ipnotizzatore è in grado di risvegliare nel paziente immagini/eventi del suo passato (eventualmente rimossi), di sollecitare in lui azioni/modifiche comportamentali o di influenzarne la percezione di stimoli (dolore o altro). Che l’ipnosi non sia un fenomeno semplicemente  suggestivo lo dimostrano varie reazioni biochimiche in concomitanza di modifiche cerebrali, svelate dalle tecniche di “imaging”, quali risonanza magnetica funzionale (RMF) e tomografia a emissione di elettroni (PET). Si è infatti documentato che sotto ipnosi si attivano aree del cervello diverse a seconda del tipo di sollecitazione ipnotica, associate al rilascio di mediatori, neurotrasmettitori e endorfine ad azione morfinosimile. Istruttiva una recente ricerca la quale rivela tramite RMF come in un soggetto ipnotizzato convinto dall’ipnotizzatore di avere una mano paralizzata, quando poi gli si ordina di muoverla, si “accende” l’area cerebrale preposta al movimento della mano,  ma l’ordine non “arriva a destinazione”! Gli indubbi effetti psicosomatici dell’ ipnosi potrebbero essere sfruttati di più nella terapia di varie patologie, in primis psiconevrosi, panico, insonnia, cefalea, enuresi, disturbi sessuali, dolore cronico anche neoplastico. In gastroenterologia, ad es., la patologia che più potrebbe beneficare della IT risulterebbe il colon irritabile e la dispepsia funzionale. Il ricorso alla IT è sorprendentemente scarso/nullo nelle ASL dove di massima non sono previsti ipnoterapeuti. Senza fondamento è invece la credenza che in condizione di ipnosi profonda il soggetto possa essere indotto a compiere atti scellerati. Secondo la maggioranza degli esperti l’ipnotizzatore non può influenzare il paziente al punto da fargli commettere un omicidio, una rapina o uno stupro, a meno che questi nel suo intimo non lo desideri. L’ipnosi in terapia (persino come co-analgesia durante interventi chirurgici), sembra fuori discussione, purché praticata da dottori preparati ad hoc,  non solo psicologi e psicoterapeuti ma pure medici e odontoiatri iscritti al rispettivo Ordine. Questi possono praticarla, purché in possesso di specializzazione acquisita in corsi specifici riconosciuti dal Ministero. Secondo alcuni psicoterapeuti (e molti istrioni!) l’ipnotizzato potrebbe pure ricuperare ricordi di vite recedenti (“ipnosi regressiva”), affermazione  senza alcuna evidenza scientifica.

Non parrebbe ma si tratta di un problema alquanto complesso se lo si affronta con sincerità e senza pregiudizi (cosa complicatissima). Consideriamo intanto, anche se il fatto è poco noto  e poco affrontato dai media, che esistono persone “normalissime” che in inglese si definiscono  “Childfree” o No kids” (= niente bambini) le quali per scelta non vogliono avere figli. Il movimento childfree è nato negli USA nel 2013 e compie dunque 10 anni.  Altra cosa  sono i “Childless”  (senza figli),i quali invece vorrebbero averne ma per varie ragioni di lui o di lei non ci riescono a farli. Tra i Childfree, nel mondo e pure nel nostro Paese, troviamo personaggi anche illustri della letteratura, dell’avvocatura, del cinema e della politica. In generale  essi non strombazzano la loro filosofia, sono piuttosto discreti, nonostante sembrino in continuo aumento in tutto il mondo e festeggino orgogliosi una loro “Giornata internazionale” che si tiene il 1° agosto di ogni anno. Amy Blackstone, sociologa docente all’Università del Maine (USA), riporta una stima basata su un campione rappresentativo relativo alle donne senza figli, secondo la quale circa la metà risultano childfree, cioè non li vogliono, mentre l’altra metà è costretta a rinunciare alla maternità, per varie cause di indole medica o sociale, malgrado la volontà di averne. In  Europa (che dal  2020 comprende 27 Paesi) le cifre sembrano essere diverse: secondo il Finnish Yearbook of Population Research, l’11 % delle persone tra 18 e 40 anni non intende figliare. In particolare le donne childfree superano in media il 10% in Svizzera, Lussemburgo e Belgio, mentre in Italia la percentuale calerebbe al 4%. Invece i maschi che non vogliono avere figli sono più del 10% in Olanda, Svizzera Austria, Germania, Svezia, Lussemburgo e Spagna, mentre gli Italiani childfree risulterebbero in media del 9%. Non si tratta comunque di casi sporadici ma di un fenomeno sempre più diffuso, attestato pure dalla rilevazione ISTAT del 2022 su “Famiglie, soggetti sociali e ciclo di vita”: del 45,4% di donne in età fertile senza figli, ben il 17,4% risulta costituto da quelle dichiaratamente “childfree. Dati del novembre 2022 confermano pure che le coppie conviventi in Italia sono circa 14 milioni, di cui 8,6 con figli e 5,3 senza figli, inclusive di childfree e childless. Su queste cifre chi scrive  ha qualche perplessità perché  la reticenza degli intervistati  su questo tema, in certi Paesi più che in altri, può pesare sensibilmente per cui i numeri andrebbero presi con prudenza. Le ragioni  di coloro che non vogliono avere figli sono piuttosto eterogenee. Per le donne childfree la scelta è strettamente pragmatica: privilegiare la carriera professionale rinunciando alla maternità che in qualche misura ostacola il loro lavoro e rende prioritaria la crescita e l’educazione del bambino (nonostante l’aiuto dei nonni quando ci sono!). Posizione vivamente criticata dai religiosi ligi alla raccomandazione biblica “crescete e moltiplicatevi”. Ciò non esclude un rapporto sentimentale omo- o etero-sessuale dei childfree che sarà facilitato da analoga propensione del partner, perché altrimenti sono prevedibili dei guai all’orizzonte.  Altri motivi non ideologici che spingono al rifiuto della maternità vengono dichiarati da più del 50% dei childfree e  riguardano in primis la sfera economica (fare e crescere figli costa e una casa adeguata per avere dei figli per molti è diventata un miraggio), e  la sfera  lavorativa (preoccupazione per la gravida di non esser assunta  o di perdere il posto di lavoro). Problema è pure la carenza di servizi di supporto (ad esempio pochi  asili che aiutino le madri lavoratrici). Infine, meno rilevanti ma non marginali ai fini della scelta childfree risulterebbero i problemi di salute di un partner (36,4%). Fare figli per una coppia non è dunque l’unica opzione e risulta una scelta meravigliosa se c’è amore e esigenza condivisa tra i partner ma non se la gravidanza  è solo un incidente di percorso, specie se il rapporto non è solido e i futuri genitori si troverebbero in condizioni economiche molto precarie e lontane dalle rispettive famiglie. La componente essenziale “Amore” nel figliare viene da noi ignorata sempre più in questi ultimi tempi mentre la prolificità viene auspicata solo per motivi etnico-economici: aumentare il numero degli italiani per fare a meno di manodopera straniera proveniente da tanti  Paesi sottosviluppati. La “moltiplicazione“ del genere umano poteva essere un auspicio positivo migliaia di anni fa, ma oggi siamo circa  8 miliardi e sarebbe proprio il caso non di auspicare una figliolanza incontrollata nel mondo Occidentale quanto di limitare quella irresponsabilmente esuberante nei Paesi poveri e mal governati dove si fatica a nutrire e a istruire i figli che nascono. Insomma, sono una presenza meravigliosa solo i figli concepiti  con decisione genitoriale condivisa e con la donna che si ama e non perché considerata una “fattrice” per strategie etnico-politiche. Ogni Stato che caldeggia un aumento della natalità nazionale, dovrebbe comunque assicurare ai giovani che si amano un lavoro non precario, compensi dignitosi e una casa dove crescere adeguatamente i propri figli.

Non parrebbe ma si tratta di un problema alquanto complesso se lo si affronta con sincerità e senza pregiudizi (cosa complicatissima). Consideriamo intanto, anche se il fatto è poco noto  e poco affrontato dai media, che esistono persone “normalissime” che in inglese si definiscono  “Childfree” o No kids” (= niente bambini) le quali per scelta non vogliono avere figli. Il movimento childfree è nato negli USA nel 2013 e compie dunque 10 anni.  Altra cosa  sono i “Childless”  (senza figli),i quali invece vorrebbero averne ma per varie ragioni di lui o di lei non ci riescono a farli. Tra i Childfree, nel mondo e pure nel nostro Paese, troviamo personaggi anche illustri della letteratura, dell’avvocatura, del cinema e della politica. In generale  essi non strombazzano la loro filosofia, sono piuttosto discreti, nonostante sembrino in continuo aumento in tutto il mondo e festeggino orgogliosi una loro “Giornata internazionale” che si tiene il 1° agosto di ogni anno. Amy Blackstone, sociologa docente all’Università del Maine (USA), riporta una stima basata su un campione rappresentativo relativo alle donne senza figli, secondo la quale circa la metà risultano childfree, cioè non li vogliono, mentre l’altra metà è costretta a rinunciare alla maternità, per varie cause di indole medica o sociale, malgrado la volontà di averne. In  Europa (che dal  2020 comprende 27 Paesi) le cifre sembrano essere diverse: secondo il Finnish Yearbook of Population Research, l’11 % delle persone tra 18 e 40 anni non intende figliare. In particolare le donne childfree superano in media il 10% in Svizzera, Lussemburgo e Belgio, mentre in Italia la percentuale calerebbe al 4%. Invece i maschi che non vogliono avere figli sono più del 10% in Olanda, Svizzera Austria, Germania, Svezia, Lussemburgo e Spagna, mentre gli Italiani childfree risulterebbero in media del 9%. Non si tratta comunque di casi sporadici ma di un fenomeno sempre più diffuso, attestato pure dalla rilevazione ISTAT del 2022 su “Famiglie, soggetti sociali e ciclo di vita”: del 45,4% di donne in età fertile senza figli, ben il 17,4% risulta costituto da quelle dichiaratamente “childfree. Dati del novembre 2022 confermano pure che le coppie conviventi in Italia sono circa 14 milioni, di cui 8,6 con figli e 5,3 senza figli, inclusive di childfree e childless. Su queste cifre chi scrive  ha qualche perplessità perché  la reticenza degli intervistati  su questo tema, in certi Paesi più che in altri, può pesare sensibilmente per cui i numeri andrebbero presi con prudenza. Le ragioni  di coloro che non vogliono avere figli sono piuttosto eterogenee. Per le donne childfree la scelta è strettamente pragmatica: privilegiare la carriera professionale rinunciando alla maternità che in qualche misura ostacola il loro lavoro e rende prioritaria la crescita e l’educazione del bambino (nonostante l’aiuto dei nonni quando ci sono!). Posizione vivamente criticata dai religiosi ligi alla raccomandazione biblica “crescete e moltiplicatevi”. Ciò non esclude un rapporto sentimentale omo- o etero-sessuale dei childfree che sarà facilitato da analoga propensione del partner, perché altrimenti sono prevedibili dei guai all’orizzonte.  Altri motivi non ideologici che spingono al rifiuto della maternità vengono dichiarati da più del 50% dei childfree e  riguardano in primis la sfera economica (fare e crescere figli costa e una casa adeguata per avere dei figli per molti è diventata un miraggio), e  la sfera  lavorativa (preoccupazione per la gravida di non esser assunta  o di perdere il posto di lavoro). Problema è pure la carenza di servizi di supporto (ad esempio pochi  asili che aiutino le madri lavoratrici). Infine, meno rilevanti ma non marginali ai fini della scelta childfree risulterebbero i problemi di salute di un partner (36,4%). Fare figli per una coppia non è dunque l’unica opzione e risulta una scelta meravigliosa se c’è amore e esigenza condivisa tra i partner ma non se la gravidanza  è solo un incidente di percorso, specie se il rapporto non è solido e i futuri genitori si troverebbero in condizioni economiche molto precarie e lontane dalle rispettive famiglie. La componente essenziale “Amore” nel figliare viene da noi ignorata sempre più in questi ultimi tempi mentre la prolificità viene auspicata solo per motivi etnico-economici: aumentare il numero degli italiani per fare a meno di manodopera straniera proveniente da tanti  Paesi sottosviluppati. La “moltiplicazione“ del genere umano poteva essere un auspicio positivo migliaia di anni fa, ma oggi siamo circa  8 miliardi e sarebbe proprio il caso non di auspicare una figliolanza incontrollata nel mondo Occidentale quanto di limitare quella irresponsabilmente esuberante nei Paesi poveri e mal governati dove si fatica a nutrire e a istruire i figli che nascono. Insomma, sono una presenza meravigliosa solo i figli concepiti  con decisione genitoriale condivisa e con la donna che si ama e non perché considerata una “fattrice” per strategie etnico-politiche. Ogni Stato che caldeggia un aumento della natalità nazionale, dovrebbe comunque assicurare ai giovani che si amano un lavoro non precario, compensi dignitosi e una casa dove crescere adeguatamente i propri figli.

Il 25 agosto e il 13 settembre in due spazi dedicati da “AGORÀ Estate” su RAI 3 ai problemi e ai costi della Sanità  Pubblica, è intervenuto il prof. Silvio Garattini, attuale Presidente dell’Istituto di Ricerche Mario Negri. Egli conferma come sempre con la solita pacata malinconia che i costi della sanità crescono di continuo e che i fondi riservati al riguardo risultano sempre più inappropriati, a prescindere da chi governa. Per affrontare al meglio la situazione –diceva Garattini– i politici dovrebbero concordare “trasversalmente” sulla necessità di un’educazione sanitaria e comportamentale già nelle scuole, ciò che  concorrerebbe alla prevenzione con vantaggi socio-economici sos tanziali. Prevenire in qualsiasi modo le malattie significa infatti non solo garantire più salute, ma  realizzare risparmi anche vistosi attraverso riduzione di esami, di ricoveri, di spesa per farmaci, di interventi chirurgici (resi necessari da malattie di per sè talora prevenibili), i quali possono a loro volta  comportare costi aggiuntivi per intervenute complicazione e/o per cure riabilitative. Specie in ambito oncologico prevenire è la migliore arma per ridurre il rischio di cancro ed è alla portata di chiunque ogni giorno. Diversi sono i modi perché una prevenzione consapevole diventi un’abitudine, per abolire o smettere velocemente il fumo, evitare il sovrappeso mediante un’alimentazione normo-calorica varia ed equilibrata, garantirsi un quotidiano movimento fisico o. meglio ancora, praticare uno sport adatto all’età. La prevenzione abbinata alla diagnosi precoce aumenta la curabilità di qualsiasi malattia, in primis neoplastica. È giusto tuttavia sottolineare che il rischio di una malattia (tumorale o meno) resta comunque individuale perché dipende da fattori multipli (genetici, ambientali, comportamentali, e anche casuali). Di massima, rispettando i suggerimenti salutistici già citati, si potrebbe ridurre del 40% il diabete di tipo 2 ed evitare del 40% circa i tumori e del 50 % le morti conseguenti. Nell’Unione Europea, secondo una stima degli epidemiologi Carlo La Vecchia ed Eva Negri pubblicata in marzo 2023 sulla rivista “Annals of Oncology”, dal 1989 a oggi si sarebbero evitati quasi 6 milioni di morti per tumore,  e ciò solo grazie a un maggiore rispetto di norme salutari dietetico-comportamentali e alla partecipazione alle campagne di screening cui si aggiungono, ovviamente, i progressi delle terapie. Questa esortazione a prevenire le malattie si scontra purtroppo oggi con gli intollerabili ritardi per poter eseguire negli ospedali gli esami previsti per una diagnosi precoce: per una mammografia, una gastro- e colonscopia, una RM o una TAC, una semplice visita  specialistica  etc, possono volerci molti mesi. Non così nella sanità privata non convenzionata, che però non è alla portata di tutti. Ma questa, purtroppo, è un’altra storia ancora.

Le malattie intestinali croniche infiammatorie (MICI) comprendono principalmente la colite ulcerosa (CU) ed il morbo di Crohn (MC). L’infiammazione diffusa o parcellare in certi settori mucosali in entrambe non ha una causa né unica né ben definita ma in gioco c’è una probabile abnorme reazione immunitaria dell’intestino nei confronti di antigeni (in primis batteri intestinali?). Le MICI tendono a decorrere con alti e bassi, non sono guaribili  ma solo “controllabili” con farmaci ad hoc. Fa eccezione la CU che può pure guarire ma solo a prezzo di una colectomia totale. La lunga durata delle MICI comporta un rischio maggiore di cancro del colon-retto. Un rapporto della American Gastroenterological Association (AGA) riportava anni fa che tale rischio nella CU aumentava del 2%, 8% e 18% dopo rispettivamente 10 , 20 e  30 anni di malattia. Nel morbo di Crohn il rischio è minore (intorno al 4,5%), ma variabile da malato a malato. Altri fattori di rischio tumorale nelle MICI sono l’estensione delle lesioni mucose intestinali, la familiarità, il coesistere di colangite sclerosante primitiva (o di altre affezioni auto-immuni) e la presenza di polipi nel colon. Peculiare parametro mucosale di rischio di cr nelle MICI è la “displasia”, una lesione microscopica di vario grado che, quando severa, rappresenta un passaggio (quasi)  obbligato per lo sviluppo del cancro. Le periodiche colonscopie di controllo consentono di cogliere precocemente l’evolversi di una displasia e quindi di realizzare per via chirurgica una prevenzione del tumore (ma tale vantaggio per l’AGA sarebbe solo “moderato”). Il monitoraggio endoscopico nei pazienti con MICI va integrato da biopsie in tutti i tratti del colon, anche in quelli macroscopicamente normali. È  sufficiente un controllo ogni 3 anni se non ci sono aspetti peggiorativi rispetto all’esame precedente, ma nei pazienti con associata colangite sclerosante primitiva la colonscopia dovrebbe essere annuale. La sorveglianza si può attuare anche con mezzi più sofisticati della colonscopia (per es. la cromoendoscopia, la tecnica a  banda stretta e la endomicroscopia confocale laser), ma la colonscopia standard o con tecnica ad alta definizione è ancora il mezzo di monitoraggio più ragionevole. Si era ipotizzata una possibile riduzione del rischio tumorale nelle MICI pure con l’uso regolare dell’acido ursodesossicolico (o URSO) ma non trovo in letteratura recenti significativi aggiornamenti in  tal senso. Analogamente, scarsa efficacia sulla degenerazione delle lesioni ce l’hanno gli altri farmaci impiegati nelle MICI. Deludente, infine, almeno fino ad oggi, il tentativo di identificare il basso o l’alto rischio neoplastico dei pazienti da anni affetti da MICI mediante l’uso di marcatori molecolari. Meglio dunque attenersi alle raccomandate direttive classiche che possono  consentire di cogliere agli inizi il viraggio tumorale

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