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Prof. Giorgio Dobrilla

Primario Gastroenterologo Emerito dell’Ospedale Regionale di Bolzano, Professore a contratto all’Università di Parma.

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Categoria: Articoli Alto Adige

L’ottimismo rischia di perdersi rileggendo un’analisi di quasi 10 anni fa di cui non andrebbe cambiata manco una virgola. Allarmato per questa “disattenzione” conviene richiamarne i punti salienti. “Oxfam” (una confederazione di 17 organizzazioni non governative dislocate in 90 Paesi) è nata per combattere carestie e ingiustizia sociale e già nel 2005 ha avvertito a Davos che, se entro il 2016 se non si fosse corso ai ripari, il 50% della ricchezza sarebbe stato nelle mani dell’1% della popolazione mondiale. Ma perché ricordarlo in una rubrica di medicina? Perché una vistosa diseguaglianza sociale ha profonde ricadute sulla salute in particolare di alcune popolazioni e di alcuni ceti. La fame, le malattie e la mancanza di cure nelle aree più povere non è certo una novità, ma da sempre “non” si è insistito a sufficienza sulla difficoltà di attuare in queste aree interventi chirurgici anche molto semplici. Errore non commesso tuttavia dal sito Healthdesk che già anni fa pubblicava un pezzo dal titolo inequivocabile: “Per cinque miliardi di persone [su una popolazione mondiale allora di 7 miliardi] la chirurgia è un miraggio”. E la rivista “Lancet” scriveva al riguardo: “Troppe persone stanno morendo per patologie comuni e facilmente trattabili chirurgicamente, come un’appendicite, una frattura, un parto cesareo”. Ciò era attribuito alla mancanza di strutture minimamente affidabili o, quando raramente presenti, ai costi elevati non affrontabili da 9 su 10 pazienti africani e del Sudest asiatico. Dei 300 milioni circa di operazioni chirurgiche effettuate ogni anno nel mondo una solo su 20 veniva attuata nei 100 Paesi più poveri per cui non si sarebbero effettuati circa 140 milioni di interventi. E i chirurghi? La loro eterogenea concentrazione la dice lunga: 35 per 100 mila abitanti in Paesi ricchi come USA, GB, Sudafrica, Europa) versus 1,7 nel Bangladesh e 0,1 per 100 mila nella Sierra Leone. Nel 2010 (e poco è cambiato!) ben 17 milioni, un terzo di tutti i decessi, risultava attribuibile a malattie curabili chirurgicamente, un numero che superava quello delle morti per AIDS, malaria e tbc messe insieme (e pur esse spesso…dimenticate). Il Direttore del King’s Centre for Global Health di Londra affermava al riguardo che “La comunità internazionale non può ignorare questo problema destinato ad aumentare nei prossimi decenni, quando molti di questi Paesi [sottosviluppati] affronteranno tassi crescenti di cancro, malattie cardiovascolari e incidenti stradali”. Si stima che per ottenere entro il 2030 livelli accettabili di accesso alla chirurgia nei Paesi poveri servirebbero 400 miliardi di dollari. Purtroppo, da allora, anzi da sempre, i dollari si trovano facilmente non per sfamare e curare i bisognosi ma per fare guerre che pesano specie su coloro che di terapie e di cibo avrebbero estrema necessità.

Salvo eccezioni, le demenze senili (DS) sono registrabili maggiormente a partire dai 70 anni, con un picco ulteriore di “incidenza” (= “nuovi casi” in un definito arco temporale). Negli over 85 ne è affetto il 30-35% dei soggetti per un totale di 80 mila casi ogni anno. La prevalenza (=”casi” presenti in un dato periodo) è maggiore nel sesso femminile forse causata da fattori ormonali ma forse favorita anche da quotidiane mansioni domestiche meno…stimolanti. Problematico a volte è distinguere tra una demenza vera e un deficit cognitivo lieve noto in inglese come “Mild Cognitive Impairment”, il quale si manifesta soprattutto con un peggioramento della memoria (variabile per altro tra un soggetto e l’altro), ma non delle attività quotidiane. In precedenza abbiamo trattato altri aspetti clinici delle demenze senili, morbo di Alzheimer incluso, ma ora ci soffermeremo soprattutto sui fattori di rischio accertati o presunti. Alcuni tra questi non sono modificabili in alcun modo, mentre su altri si può cercare parzialmente di intervenire. Tra gli immodificabili, già lo si è detto, troviamo in primo luogo l’età avanzata (è ovvio che invecchi in modo varabile anche il cervello!) e il genere: nelle donne infatti la frequenza è quasi doppia. Viene poi l’etnia: negli USA, dove il confronto inter-etnico è più agevole, risulta che un rischio maggiore lo corrono afro-americani e ispanici, benché sia difficile escludere in questi sottogruppi, più che nei caucasici, l’influenza di diverse abitudini alimentari e professionali come pure di abusi. Immodificabile anche il corredo cromosomico: ad es. nei gemelli, sia monozigoti che dizigoti, in cui sia presente la variante ε4 del gene ApoE, l’Alzheimer è 3 volte più frequente che nelle altre demenze. Lo stesso dicasi per le sindromi cosiddette “progeroidi”, malattie rare che causano un precoce invecchiamento globale e riducono così l’aspettativa di vita (esse includono pure la sindrome di Down). Altro fattore immodificabile è la presenza di amiloidosi a livello cerebrale. Fattori modificabili, previa attiva prevenzione, comprendono invece malattie piuttosto comuni ad andamento oscillante se non trattate, efficaci tanto più quanto più precoce è il loro riconoscimento. In primo luogo comprendono il diabete mellito e l’ipertensione arteriosa che influenza l’afflusso cerebrale di sangue. Segue la sedentarietà la quale si associa non di rado all’obesità e alla dislipidemia (aumento nel sangue del colesterolo e dei trigliceridi). Anche il fumo favorisce la demenza senile, nonostante non manchino esempi di individui “orgogliosi” di mostrarsi accaniti fumatori (come il 93enne Andrea Camilleri -1925-2019). Idem per l’abuso alcolico. Infine, i traumi cranici ripetuti non rari in atleti dediti a sport di contatto (football americano, rugby, calciatori che abbondano nei colpi di testa, pugili).

Il dolore precordiale (per taluni sinonimo di “anginoso”) avvertito in sede retro-sternale e/o irradiato alla schiena, alle braccia, al collo/mandibola, allarma i soggetti non giovanissimi che temono un infarto miocardico (IM). In Italia più di120 mila sono le persone colpite ogni anno da infarto e circa il 25% di queste, muore per ritardato arrivo in ospedale. Tra i pazienti che arrivano in cardiologia per IM si aggiunge una ulteriore mortalità di poco più del 10%. Una definizione precoce delle cause del DR è dunque opportuna, ma non sempre semplice, in quanto diverse sono le cause extra-cardiache di questo dolore. Utile naturalmente valutarne le caratteristiche (frequenza, durata, intensità, irradiazione), ma la clinica non è sempre dirimente. Al Pronto Soccorso, cui il paziente viene avviato o si rivolge spontaneamente, si controllano in primis l’ECG (che però nelle prime ore può non essere dimostrativo) e i test di danno miocardico (in primis, il saggio ematico della troponina e altri enzimi). Se questi esami risultano negativi il cardiologo tende ad attribuire il DR ad un reflusso gastro-esofageo, mentre il gastroenterologo consultato in seconda battuta, tenderebbe a non escludere un’origine coronarica del DR se l’esofagogastroscopia e la pH-metria intraesofagea risulteranno nei limiti della norma. In alcuni pazienti il DR resterà comunque di spiegazione incerta e se persiste imporrà magari di approfondire con un’angiografia delle coronarie o con una Angio-TAC coronarica. Questa è una metodica non invasiva come la coronarografia, benchè sia anch’essa associata ad un aumento del rischio radiologico consistente, superiore centinaia di volte a quello di una radiografia del torace. Un datato editoriale di Rita Redgber sul New England Journal of Medicine, commentava al riguardo vantaggi/svantaggi di questa Angio-TAC in pazienti con DR ricoverati per insufficienza coronarica che rimaneva sospetta nonostante la negatività di ECG e dei test cardiaci. La Redberg concludeva che nei sottoposti ad Angio-TAC i vantaggi sono minimi rispetto ai pazienti non esaminati con tale procedura: il ricovero risulterebbe più breve di sole 7,5 ore e un controllo a 28 giorni non registrerebbe esiti clinici diversi tra i ricoverati sottoposti e non all’Angio-TAC. Nonostante il costo rilevante di tale esame, non ci sarebbe insomma alcuna evidenza che esso attuato prudenzialmente in pazienti con DR migliori il loro destino (ma forse l’ansia sì!), e non è poco! Degli esaminati, solo l’1% andrà incontro all’infarto a prescindere dagli accertamenti subiti. I pazienti con DR, ma con ECG e troponina nella norma, potrebbero comunque considerarsi un gruppo a rischio basso di infarto, che peraltro non si ridurrebbe ulteriormente sottoponendosi ad un esame ad alto rischio radiologico. “Less is more”, direbbero gli Inglesi, quasi a dire che meno si fa (talora) e meglio è.

La tosse è un sintomo che in inverno spesso accompagna infezioni di natura per lo più virale quali raffreddore, influenza, sinusite o bronchite acuta. Il disturbo è dovuto allo stimolo esercitato dagli agenti infettivi su recettori presenti in laringe e nel tratto tracheo-bronchiale. Tramite il nervo vago essi inviano al centro della tosse, situato nel bulbo encefalico l’informazione che nelle vie respiratorie c’è qualcosa che “irrita” (muco eccessivo e/o inquinanti provenenti dall’esterno). In risposta, il cervello manda per via nervosa l’ordine di far contrarre i muscoli respiratori per liberarsi degli “intrusi” tramite la tosse. Solo talora questa dipende pure da un’abnorme sensibilità individuale a stimoli anche minimi (tosse psicogena). E dunque la tosse costituisce di per sé una reazione difensiva utile, atta a liberare le vie respiratorie dal catarro che ha già incamerato particelle estranee ed eventuali agenti infettivi. Purtroppo, talora essa diventa così fastidiosa da disturbare anche il sonno notturno per cui chi ne soffre si rivolge al curante, o più spesso al farmacista, chiedendo un rimedio che attenui prontamente tale tormento. Di questo frequente sintomo stagionale se ne sono occupate di recente pure alcune organizzazioni di consumatori in quanto la pubblicità delle aziende a favore di sciroppi emollienti ed espettoranti anti-tosse o di altri “bechici” (= agenti che diminuiscono l’eccitabilità del centro bulbare della tosse) è particolarmente vivace, sorvolando sul fatto che:1) Il sintomo passa anche da solo; 2) L’efficacia e la supremazia di un antitosse sull’altro (sia “mucolitico” per tosse grassa che “sedativo” per quella secca) sono ipotetiche e non suffragate da studi controllati convincenti, ciò che suggerirebbe al paziente di scegliere il preparato meno costoso; 3) Pure per altre direttive non farmacologiche diverse dagli antitosse mancano conferme d’efficacia supportate da studi controllati. Alcuni pazienti riferiscono qualche giovamento ricorrendo a espedienti vari (umidificare l’ambiente, bere in abbondanza, suffumigi con acqua tepida, caramelle da succhiare), anch’essi peraltro di efficacia non ben quantificata. Queste direttive si basano pertanto su tradizioni o su esperienze aneddotiche alimentanti la speranza “che la cura serva a qualcosa”. Fa eccezione l’assunzione del miele che, specie se sciolto in bevande calde, sembra davvero calmare la tosse riducendo l’infiammazione della gola. La sua efficacia sedativa sarebbe pari a quella del “destrometorfano” presente in molti sciroppi. Tuttavia, esso è controindicato nei bambini con meno di 1 anno per il rischio di essere stato contaminato con spore di “Clostridium botulinum” fonte di severe conseguenze neurotossiche. Pure i farmaci mucolitici sono controindicati sotto i 2 anni e vanno in ogni modo usati solo per pochi giorni. Meglio evitare il fai date.

La recente orrenda vicenda di Giulia Cecchettin ammazzata brutalmente dal suo “innamorato” poco prima di laurearsi in Ingegneria dell’informazione, desta uno sgomento così indicibile e diffuso che non si sa proprio come commentarlo specie ricordando gli altri 105 femminicidi registrati in Italia nel 2023. La reazione più immediata per l’assassinio di troppe donne è un dolore profondo, un malessere interiore per i quali non dovrebbe bastare l’indignazione della sola giornata dell’8 marzo. Lo sgomento emotivo, tranne che per i famigliari e le persone vicine alla vittima, dura infatti brevissimo tempo. L’orrore immediato è spesso soppiantato rapidamente dall’interesse più o meno morboso per dettagli sostanzialmente poco significativi se non per il magistrato e la legge: come è stata uccisa la vittima? Quando e perché è successo? C’è anche stata, e quale, violenza sessuale? Questo orrore è però fugace e lo constatiamo anche per eventi più tragici ancora riguardanti non una singola persona, ma migliaia di vittime di guerra (civili e militari) per le quali non è colpevole un singolo individuo ma la follia di troppi. Ricordiamo al riguardo che la tragedia incommentabile di Giulia abbia sottratto a momenti l’interesse mediatico persino alla guerra scatenata dall’ invasione russa dell’Ucraina, all’attacco terroristico atroce di Hamas a Gaza e all’abnorme reazione di Israele. Questo accade per ogni tipo di sciagura individuale o collettiva perché la memoria della gente, se non ravvivata da un’educazione civile e da un’informazione continua e consapevole degli eventi, è variamente distratta e quasi abituata a registrare incresciose vicende quotidiana in ogni parte del mondo. Tornando al femminicidio una considerazione da ribadire è che per ridurre la violenza in aumento sulle donne c’è tendenza delle Autorità e dei politici a ipotizzare soltanto soluzioni “tattiche”, ossia pene più severe per i colpevoli che raramente vengono poi attuate, quali la diffida di avvicinamento alla potenziale vittima, o il “braccialetto”. Si glissa sempre però su una soluzione “strategica” che prevede solo una precoce educazione civica, sentimentale e sessuale dei giovani in particolare e della popolazione in generale, genitori inclusi. In tanti anni di professione, anche se contattato per altri motivi (problemi gastroenterologici funzionali o organici) ho infatti personalmente constatato l’assoluta mancanza di confidenza tra figli, e soprattutto figlie, e i propri genitori. Eppure il sesso nei giovani non è un capriccio indecente, ma una fisiologica esigenza che affiora e che abbisogna solo di essere discussa e regolamentata. Solo la confidenza con i genitori durante la crescita e poi l’informazione scolastica a tutti i livelli attuata con molta naturalezza e con linguaggio adatto (di fatto assai infrequente) può consentire di moderare l’aggressività dei maschi e rimuoverne il senso di colpa (peccato?) del giovane se avverte certi stimoli. Se manca questa “confidenza” con genitori ed insegnanti in genere, l’adolescente maschio l’educazione sessuale se la fa da solo, ricorrendo al passa parola o magari alla pornografia disponibile pure su cellulari e videotape. In tal caso lo scenario è artificiale e completamente privo di una componente fisiologica e benefica della sessualità come l’amore. Quando l’amore è vero, esclude di per sè l’aggressività, la prevaricazione e il femminicidio, non di rado esaltati dal’uso eventuale di droghe. Educare, proteggere e non solo punire dovrebbe essere l’auspicio che non si limiti all’8 marzo di ogni anno.

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