Tra i cancri meno noti, più rari e più maligni si colloca il colangiocarcinoma (CCA). In Europa si registrano meno di 10 mila casi all’anno e in Italia si stima che esso abbia colpito nel 2020 circa 5.400 persone. ll CCA nasce dall’epitelio che riveste i dotti biliari deputati a veicolare nell’intestino tenue la bile prodotta dalle cellule epatiche o quella già concentrata (ma non prodotta!) nella colecisti. Questo cancro può originare sia nei piccoli dotti biliari intraepatici (l’evento prognosticamente peggiore) sia in quelli extraepatici coledoco o nel cistico (che drena la colecisti). Purtroppo, il colangiocarcinoma può essere a lungo asintomatico e quindi difficile da diagnosticare precocemente. Il più delle volte la prima manifestazione è il colorito giallognolo della sclera (il “bianco dell’occhio”), che tende poi ad aumentare progressivamente e interessare anche la cute. Tra i campanelli di allarme c’è anche un cambiamento nel colore delle feci le quali diventano un po’ più chiare, mentre l’urina si fa più scura. Alla diagnosi si arriverà grazie ad esami come la TAC, che tuttavia non sempre è risolutiva, e soprattutto la colangio-RM (risonanza magnetica specifica) e la colangio-pancreatografia retrograda, esame invasivo (CPRE), attuato per via endoscopica. Il 70% dei pazienti riceve dunque una diagnosi quando ormai il tumore è in stadio avanzato e le opzioni terapeutiche sono molto limitate. La chirurgia spesso non è più praticabile e i trattamenti sistemici come la chemioterapia non garantiscono una risposta duratura. La prognosi è pertanto severa e la sopravvivenza globale a 5 anni dalla diagnosi risulta in media inferiore al 20%. Negli ultimi anni, però – spiega Giordano Beretta, Direttore sell’Oncologia Medica della ASL Pescara e Presidente della Fondazione Italiana di Oncologia Medica – “sono cresciute le nostre conoscenze sul tipo molecolare su questi tumori”. E aggiunge: “Oggi sappiamo quali sono le mutazioni geniche che ne guidano la crescita. Circa la metà dei colangiocarcinomi intraepatici (quelli peggiori) ha almeno una mutazione che può essere corretta con specifici agenti a bersaglio molecolare”. Per questo motivo, da un paio d’anni pure l’Agenzia Italiana del Farmaco ha approvato il “pemigatinib”, farmaco che sembra funzionare nei pazienti adulti affetti da CCA, sia avanzato localmente che metastatico, anche se risultati refrattari a una precedente chemioterapia convenzionale. Il pemigatinib costituirebbe di fatto una terapia mirata, ben tollerata e capace almeno di rallentare l’evoluzione di quei colangiocarcinomi contrassegnati da una mutazione genica specifica (di cui tralasciamo i dettagli in quanto troppo ostica per i lettori non addetti). La terapia con tale farmaco va comunque attuata solo da un oncologo esperto nel trattamento di pazienti con CCA nei quali si sia prima verificata la mutazione genica.

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