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Prof. Giorgio Dobrilla

Primario Gastroenterologo Emerito dell’Ospedale Regionale di Bolzano, Professore a contratto all’Università di Parma.

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Categoria: Articoli Alto Adige

Il morbo di Alzheimer (ALZ) rappresenta il 50-80% dei casi di demenza nella popolazione occidentale. L’ALZ è contrassegnata dalla perdita di memoria del soggetto e dal declino progressivo di altre abilità che può essere così grave da interferire con le usuali attività quotidiane. Si associano nel tempo problemi di linguaggio, alterazioni della personalità, mancanza d’iniziativa, disorientamento, incapacità di ragionamento logico e di giudizio. Il paziente spesso è incapace di ritrovare gli oggetti che ha lasciato in un posto per lui insolito. Alla base dell’ALZ c’è l’accumulo tra le cellule nervose di placche di “beta-amiloide”, una proteina che le danneggia e poi ne riduce la sopravvivenza, con conseguente progressiva atrofia di varie aree cerebrali (in primis l’ippocampo). Altra lesione tipica dell’ALZ che pure concorre all’ atrofia sono degli ammassi neurofibrillari intra-neuronali costituiti principalmente da una proteina nota come “tau fosforilata”. L’ALZ colpisce prevalentemente soggetti in età avanzata (rara la forma ereditaria), ma non mancano singoli casi gravi e rapidamente progressivi pure in soggetti più giovani. A tutt’oggi non esiste ancora una cura per guarire l’ALZ e i farmaci disponibili mirano più che altro a rallentarne il peggioramento specie nelle fasi iniziali. La diagnosi di morbo di Alzheimer, che è complessa e anche per questo è solitamente tardiva, si avvale di numerose indagini cliniche e strumentali (tra cui test cognitivi e neuropsicologici, tecniche di immagine come TAC e Risonanza Magnetica Cerebrale). La malattia è solo parzialmente controllabile ma certo non guaribile. Tuttavia, negli ultimi mesi si è aperto un innovativo spiraglio terapeutico che mira specificamente a potenziare la memoria dei malati di ALZ grazie alla modifica genetica della proteina LIMK1 che è di norma presente nel nostro cervello. La terapia innovativa è stata pubblicata sulla rivista “Science Advances” da alcuni neuroscienziati dell’Università Cattolica di Roma e della Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli. In sintesi, il prof. C. Grassi e collaboratori hanno modificato la sequenza molecolare della LIMK1 inserendovi una specie di “interruttore molecolare” che serve ad attivare a comando la LIMK1 previa somministrazione di “rapamicina”. Questo immunosoppressore è prodotto da un batterio isolato nel terreno dell’isola di Pasqua (Rapa Nui e il suo nome indigeno). Approvata col nome di “Sirolimus” dalla Food and Drug Administration e dalla European Medicines Agency, la rapamicina non solo riduce la risposta immunitaria (utile per prevenire il rigetto di organi trapiantati), ma sembra pure rallentare del 50-60% l’invecchiamento di certi animali. È proprio di questo suo effetto anti-invecchiamento che potrebbe indirettamente giovarsi la memoria del malato di ALZ. Fascino della ricerca scientifica.

Tra i cancri meno noti, più rari e più maligni si colloca il colangiocarcinoma (CCA). In Europa si registrano meno di 10 mila casi all’anno e in Italia si stima che esso abbia colpito nel 2020 circa 5.400 persone. ll CCA nasce dall’epitelio che riveste i dotti biliari deputati a veicolare nell’intestino tenue la bile prodotta dalle cellule epatiche o quella già concentrata (ma non prodotta!) nella colecisti. Questo cancro può originare sia nei piccoli dotti biliari intraepatici (l’evento prognosticamente peggiore) sia in quelli extraepatici coledoco o nel cistico (che drena la colecisti). Purtroppo, il colangiocarcinoma può essere a lungo asintomatico e quindi difficile da diagnosticare precocemente. Il più delle volte la prima manifestazione è il colorito giallognolo della sclera (il “bianco dell’occhio”), che tende poi ad aumentare progressivamente e interessare anche la cute. Tra i campanelli di allarme c’è anche un cambiamento nel colore delle feci le quali diventano un po’ più chiare, mentre l’urina si fa più scura. Alla diagnosi si arriverà grazie ad esami come la TAC, che tuttavia non sempre è risolutiva, e soprattutto la colangio-RM (risonanza magnetica specifica) e la colangio-pancreatografia retrograda, esame invasivo (CPRE), attuato per via endoscopica. Il 70% dei pazienti riceve dunque una diagnosi quando ormai il tumore è in stadio avanzato e le opzioni terapeutiche sono molto limitate. La chirurgia spesso non è più praticabile e i trattamenti sistemici come la chemioterapia non garantiscono una risposta duratura. La prognosi è pertanto severa e la sopravvivenza globale a 5 anni dalla diagnosi risulta in media inferiore al 20%. Negli ultimi anni, però – spiega Giordano Beretta, Direttore sell’Oncologia Medica della ASL Pescara e Presidente della Fondazione Italiana di Oncologia Medica – “sono cresciute le nostre conoscenze sul tipo molecolare su questi tumori”. E aggiunge: “Oggi sappiamo quali sono le mutazioni geniche che ne guidano la crescita. Circa la metà dei colangiocarcinomi intraepatici (quelli peggiori) ha almeno una mutazione che può essere corretta con specifici agenti a bersaglio molecolare”. Per questo motivo, da un paio d’anni pure l’Agenzia Italiana del Farmaco ha approvato il “pemigatinib”, farmaco che sembra funzionare nei pazienti adulti affetti da CCA, sia avanzato localmente che metastatico, anche se risultati refrattari a una precedente chemioterapia convenzionale. Il pemigatinib costituirebbe di fatto una terapia mirata, ben tollerata e capace almeno di rallentare l’evoluzione di quei colangiocarcinomi contrassegnati da una mutazione genica specifica (di cui tralasciamo i dettagli in quanto troppo ostica per i lettori non addetti). La terapia con tale farmaco va comunque attuata solo da un oncologo esperto nel trattamento di pazienti con CCA nei quali si sia prima verificata la mutazione genica.

MEDICINA E GIORNALISMO: PROBLEMA COMPLESSO 6 feb 2024In gennaio 2024 il tema delle responsabilità di quotidiani, settimanali e Radio-TV che riservano spazio alla informazione medica viene opportunamente ripreso con molta ricchezza di dati da David Frati sulla rivista “Forward” (Pensiero Scientifico Editore) che sfrutterò ampiamente. Particolarmente delicato è l’equilibrio tra informazione medica ai cittadini da parte di giornalisti medici che scrivono sui media e interessi delle aziende farmaceutiche. Una pregiudiziale a questo proposito sarebbe quella che coloro che trattano di malattie e terapie dovrebbero usare prima di tutto un linguaggio comprensibile per coloro che leggono, evitando ad esempio di ricorrere ad acronimi poco accessibili ai non addetti ai lavori. “La delicatezza della salute delle persone –scrive al riguardo Frati su Forward– con la possibilità di influenzarne indebitamente le scelte in questo ambito, imporrebbe un’etica professionale ferrea”. Altrimenti il rischio di scarsa precisione, di poca comprensibilità e persino di disinformazione è sempre elevato. Chi scrive di salute deve evidentemente fornire ai lettori interessati informazioni il più possibile veritiere, equilibrate e soprattutto utili, perché la diffusione di dati confusi magari in bona fide o, peggio ancora, volutamente falsi, risulterebbe inammissibile. Bisogna che il medico (giornalista o anche no) verifichi pregiudizialmente la fonte della notizia che fornisce in quanto basarsi solo sulla autorevolezza della rivista che l’ha pubblicata non è sufficiente. Per un dottore che voglia essere un “buon” giornalista (ma non tutti in questa categoria professionale possono fregiarsi di questo aggettivo) è oggi assolutamente necessario avere familiarità con certe competenze specifiche, considerando poi che la mole di studi che egli dovrebbe consultare prima di divulgare una notizia è spaventosa (e impossibile!): basti pensare che gli articoli pubblicati sulle riviste scientifiche nel 2023 sono stati milioni (+ mezzo milione di studi clinici da completare), per cui una selezione a priori è inevitabilmente necessaria. Inoltre, problematico per il giornalista che voglia verificare le fonti di informazione c’è il rischio non teorico delle frodi. A tal proposito L. De Fiore e G. Domenighetti scrivevano: “Con una certa frequenza pure autori, direttori di riviste, revisori, editori scientifici, persino società scientifiche sono talvolta tentati da comportamenti irrituali, eticamente biasimevoli o francamente illegali”. Nel 2023 questa concreta possibilità ha comportato il ritiro di oltre 10.000 studi clinici controllati risultati però in seguito non convincenti, un numero 5 volte maggiore di quello di 10 anni fa. Per il giornalista che voglia essere serio non c’è infine posto per l’ “infotainment”, intraducibile neologismo inglese che si propone di riunire informazione e intrattenimento, obiettivi tra loro poco compatibili.

Feb 26

In gennaio 2024 il tema delle responsabilità di quotidiani, settimanali e Radio-TV che riservano spazio alla informazione medica viene opportunamente ripreso con molta ricchezza di dati da David Frati sulla rivista “Forward” (Pensiero Scientifico Editore) che sfrutterò ampiamente. Particolarmente delicato è l’equilibrio tra informazione medica ai cittadini da parte di giornalisti medici che scrivono sui media e interessi delle aziende farmaceutiche. Una pregiudiziale a questo proposito sarebbe quella che coloro che trattano di malattie e terapie dovrebbero usare prima di tutto un linguaggio comprensibile per coloro che leggono, evitando ad esempio di ricorrere ad acronimi poco accessibili ai non addetti ai lavori. “La delicatezza della salute delle persone –scrive al riguardo Frati su Forward– con la possibilità di influenzarne indebitamente le scelte in questo ambito, imporrebbe un’etica professionale ferrea”. Altrimenti il rischio di scarsa precisione, di poca comprensibilità e persino di disinformazione è sempre elevato. Chi scrive di salute deve evidentemente fornire ai lettori interessati informazioni il più possibile veritiere, equilibrate e soprattutto utili, perché la diffusione di dati confusi magari in bona fide o, peggio ancora, volutamente falsi, risulterebbe inammissibile. Bisogna che il medico (giornalista o anche no) verifichi pregiudizialmente la fonte della notizia che fornisce in quanto basarsi solo sulla autorevolezza della rivista che l’ha pubblicata non è sufficiente. Per un dottore che voglia essere un “buon” giornalista (ma non tutti in questa categoria professionale possono fregiarsi di questo aggettivo) è oggi assolutamente necessario avere familiarità con certe competenze specifiche, considerando poi che la mole di studi che egli dovrebbe consultare prima di divulgare una notizia è spaventosa (e impossibile!): basti pensare che gli articoli pubblicati sulle riviste scientifiche nel 2023 sono stati milioni (+ mezzo milione di studi clinici da completare), per cui una selezione a priori è inevitabilmente necessaria. Inoltre, problematico per il giornalista che voglia verificare le fonti di informazione c’è il rischio non teorico delle frodi. A tal proposito L. De Fiore e G. Domenighetti scrivevano: “Con una certa frequenza pure autori, direttori di riviste, revisori, editori scientifici, persino società scientifiche sono talvolta tentati da comportamenti irrituali, eticamente biasimevoli o francamente illegali”. Nel 2023 questa concreta possibilità ha comportato il ritiro di oltre 10.000 studi clinici controllati risultati però in seguito non convincenti, un numero 5 volte maggiore di quello di 10 anni fa. Per il giornalista che voglia essere serio non c’è infine posto per l’ “infotainment”, intraducibile neologismo inglese che si propone di riunire informazione e intrattenimento, obiettivi tra loro poco compatibili.

In gennaio 2024 il tema delle responsabilità di quotidiani, settimanali e Radio-TV che riservano spazio alla informazione medica viene opportunamente ripreso con molta ricchezza di dati da David Frati sulla rivista “Forward” (Pensiero Scientifico Editore) che sfrutterò ampiamente. Particolarmente delicato è l’equilibrio tra informazione medica ai cittadini da parte di giornalisti medici che scrivono sui media e interessi delle aziende farmaceutiche. Una pregiudiziale a questo proposito sarebbe quella che coloro che trattano di malattie e terapie dovrebbero usare prima di tutto un linguaggio comprensibile per coloro che leggono, evitando ad esempio di ricorrere ad acronimi poco accessibili ai non addetti ai lavori. “La delicatezza della salute delle persone –scrive al riguardo Frati su Forward– con la possibilità di influenzarne indebitamente le scelte in questo ambito, imporrebbe un’etica professionale ferrea”. Altrimenti il rischio di scarsa precisione, di poca comprensibilità e persino di disinformazione è sempre elevato. Chi scrive di salute deve evidentemente fornire ai lettori interessati informazioni il più possibile veritiere, equilibrate e soprattutto utili, perché la diffusione di dati confusi magari in bona fide o, peggio ancora, volutamente falsi, risulterebbe inammissibile. Bisogna che il medico (giornalista o anche no) verifichi pregiudizialmente la fonte della notizia che fornisce in quanto basarsi solo sulla autorevolezza della rivista che l’ha pubblicata non è sufficiente. Per un dottore che voglia essere un “buon” giornalista (ma non tutti in questa categoria professionale possono fregiarsi di questo aggettivo) è oggi assolutamente necessario avere familiarità con certe competenze specifiche, considerando poi che la mole di studi che egli dovrebbe consultare prima di divulgare una notizia è spaventosa (e impossibile!): basti pensare che gli articoli pubblicati sulle riviste scientifiche nel 2023 sono stati milioni (+ mezzo milione di studi clinici da completare), per cui una selezione a priori è inevitabilmente necessaria. Inoltre, problematico per il giornalista che voglia verificare le fonti di informazione c’è il rischio non teorico delle frodi. A tal proposito L. De Fiore e G. Domenighetti scrivevano: “Con una certa frequenza pure autori, direttori di riviste, revisori, editori scientifici, persino società scientifiche sono talvolta tentati da comportamenti irrituali, eticamente biasimevoli o francamente illegali”. Nel 2023 questa concreta possibilità ha comportato il ritiro di oltre 10.000 studi clinici controllati risultati però in seguito non convincenti, un numero 5 volte maggiore di quello di 10 anni fa. Per il giornalista che voglia essere serio non c’è infine posto per l’ “infotainment”, intraducibile neologismo inglese che si propone di riunire informazione e intrattenimento, obiettivi tra loro poco compatibili.

Un certo pudore impedisce talora al paziente di consultare il medico per un disturbo per il quale egli dispone solo di termini che gli sembrano volgari. Esempio ne è la flatulenza (specie se maleodorante!) che consiste in espulsioni di gas per via rettale che superano i 25 episodi/die (versus le 14/die di un soggetto normale, anche se inavvertite). Se si rivolge al curante il paziente riferisce con una certa ritrosia di sentirsi pieno di gas ma senza entrare in particolari imbarazzanti. Il prof. P. Conte, chimico all’Università di Palermo, ne parla invece in un articolo intitolato in inglese “Fart chemistry”, ossia “Chimica delle scoregge”. In esso il professore rimarca che la composizione chimica dei flati (o peti) cambia notevolmente a seconda di ciò che il soggetto mangia e di altri fattori individuali, ma che essa è di regola fatta per il 99% da azoto molecolare (N2), idrogeno molecolare (H2), anidride carbonica (CO2), ossigeno molecolare (O2) e metano (CH4). In sostanza, essa è simile a quella dell’aria che respiriamo in gran parte poi riassorbiamo, ma i rapporti quantitativi tra i vari gas emessi per via rettale sono alquanto differenti. Si ingerisce aria pure durante la deglutizione, specie in soggetti che masticano frettolosamente, parlano molto durante i pasti e un contributo lo gioca anche l’aria contenuta negli alimenti, nelle bibite e vini frizzanti. Grossi volumi di CO2 si formano inoltre per neutralizzazione dell’acido cloridrico dello stomaco da parte del bicarbonato pancreatico, ma la CO2 sviluppatasi passa poi nel sangue e sarà eliminata con il respiro. Tra i cibi che facilitano la flatulenza vi sono in primis tutti i legumi (fagioli, piselli, fave, ceci, lenticchie, et al) e ortaggi vari (cavoli di vario tipo, crauti, aglio e cipolla et al). Nessuno dei gas citati è di per sé maleodorante e l’odore delle feci è invece dovuto a quantità anche minime di scatolo e indolo, alle ammine volatili che “sanno” di pesce andato a male, e agli acidi grassi a catena corta il cui odore ricorda quello del burro rancido, mentre l’odore di uova marce è dovuto a composti contenenti zolfo. I gas nell’intestino sono infine dovuti all’attività dei batteri nel colon che fermentano il cibo non digerito. Quanto maggiore è la concentrazione di sostanze non assorbite nel tenue e tanto maggiore è la produzione di gas a livello del colon. Dati più scarsi riguardano la flatulenza nei soggetti in cui il colon, che è segmento particolarmente ricco di flora batterica (miliardi di batteri per grammo di contenuto intestinale), è stato asportato chirurgicamente nei quali si ha un iper-accrescimento della flora batterica nel tenue la quale, oltre che a concorrere alla flatulenza, può pure comportare una dismotilità delle anse intestinali. Il “fai da te” spesso è insufficiente ed è meglio sentire un gastroenterologo o un buon nutrizionista.

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